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LETTURE DELLE CRISI / Cari economisti, imparate da Darwin

di Niall Ferguson*

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3 Dicembre 2009
Ritratti di economisti, manager e banchieri dI José-Maria Cano sul Wall Street Journal esposti a Londra (Afp)

di Niall Ferguson
Per separare le Cassandre dagli incurabili Pangloss, i cavalieri dell'Apocalisse dai convinti assertori dell'ottimismo a oltranza, non vi è nulla di meglio di una crisi economica di grandi proporzioni. In tempi simili facciamo bene a ricordare che gli intellettuali e gli opinionisti odierni sono soltanto nani sulle spalle di giganti.
Quello passato, per esempio, è stato un anno pessimo per Adam Smith (1723-1790) e per la sua "mano invisibile". Al contrario, si è trattato di un anno positivo per Karl Marx (1818-1883) che ha sempre sostenuto che le contraddizioni interne al capitalismo, e in particolare la sua tendenza ad acuire le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, avrebbero portato alla crisi e infine al crollo completo. Una menzione speciale va sicuramente al teorico marxista d'inizio XX secolo Rudolf Hilferding (1877-1941) la cui opera Il capitale finanziario anticipava l'ascesa di gigantesche istituzioni finanziarie "troppo grandi per fallire".
Si potrebbe presumere che a unirsi a Smith in un imbarazzato silenzio ci sia Friedrich von Hayek (1899-1992), che già nel 1944 metteva in guardia contro il welfare state, che avrebbe portato l'Occidente verso la «strada della servitù della gleba». Con la reale possibilità che su mandato del governo negli Stati Uniti si riesca adesso ad espandere l'assistenza sanitaria, i timori libertari di Hayek paiono aver fatto un passo indietro, quanto meno nel Partito democratico. D'altro canto, quello che si conclude è stato un anno eccezionale per il rivale di vecchia data di Hayek, John Maynard Keynes (1883-1946), il cui libro del 1936 Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta è diventato la nuova bibbia dei ministri delle Finanze che cercano di ridurre la disoccupazione tramite gli stimoli fiscali. Il libero mercato delle idee non è stato altrettanto favorevole a Milton Friedman (1912-2006). «L'inflazione – scrisse Friedman in una sua celebre definizione – è sempre e ovunque un fenomeno monetario, nel senso che può verificarsi anche senza un più rapido aumento nella quantità di capitali che nella produzione». Beh, dal settembre del 2008 Ben Bernanke ha stampato banconote come un matto alla Federal Reserve americana, raddoppiando la base monetaria. E l'inflazione? Nel preciso momento in cui scrivo questo articolo, il tasso d'inflazione dei prezzi al consumo è sotto il 2 per cento. Meglio cestinare quindi quella vecchia copia di Storia monetaria degli Stati Uniti 1867-1960, scritta da Milton (in collaborazione con Anna J. Schwartz che è ancora felicemente tra noi).
Meglio investire, piuttosto, in una nuova eccellente edizione di La grande trasformazione di Karl Polanyi (1886-1964). Per spiegare gli eccessi del boom e le isterie del fallimento totale non c'è niente di meglio dell'approccio all'economia più antropologico di Polanyi. E appunto: a quale fondamento dell'economia classica si potrebbe far risalire e imputare la dabbenaggine degli investitori nello schema Ponzi da tempo usato da Bernard Madoff?
I più grandi intellettuali perdenti, in ogni caso, devono sicuramente essere i pionieri della teoria dei mercati efficienti - economisti ancora vivi, come Harry M. Markowitz, che ha sviluppato la teoria della diversificazione dei portafogli, o come William Sharpe, inventore del Capital Asset Pricing Model (Capm). In due libri meravigliosamente chiari, il defunto Peter Bernstein ha esaltato le loro «idee d'importanza capitale». Adesso che così tanti fondi comuni d'investimento si ritrovano nel mucchio dei rifiuti, le loro idee non sembrano affatto di così "capitale importanza".
Quali sono allora, almeno tra gli economisti, quelli usciti vincenti dal 2009? Facciano pure un passo avanti gli "austriaci", economisti come Ludwig von Mises (1881-1973), che ha sempre considerato le bolle degli asset innescate dal credito come la minaccia più pericolosa per la stabilità del capitalismo. Non molti economisti americani hanno portato avanti il loro lavoro nella fine del XX secolo, ma una figura eterodossa è emersa come beneficiaria postuma di questa crisi: Hyman Minsky (1919-1996). Nel momento stesso in cui altri economisti che avevano studiato all'Università di Chicago mettevano a punto la sintesi neoclassica - basata su Adam Smith più matematica applicata - Minsky sviluppava la sua "ipotesi d'instabilità finanziaria" senza aver bisogno della matematica.
Sarebbe tuttavia sicuramente un errore eleggere come Miglior Pensatore defunto del 2009 un teorico dell'economia. L'intera scienza economica ha fatto flop, un flop per altro fin troppo imbarazzante. Dovremmo pertanto prendere in considerazione le affermazioni di uno storico, perché la Storia è sicuramente servita da guida nell'attuale crisi, più di qualsiasi modello economico. Il mio candidato quindi è lo storico della finanza Charles Kindleberger (1910-2003), che ha attinto al lavoro di Minsky per divulgare l'idea di una crisi finanziaria come un processo in cinque fasi, che va dallo spiazzamento all'euforico overtrading alla vera e propria ossessione, a cui seguono preoccupazione crescente e panico finale. Naturalmente, la Storia offre ben più che la semplice nozione che gli incidenti finanziari possono accadere. Una delle verità storiche più importanti è che la prima bozza della Storia - la versione scritta al momento dai giornalisti e da altri contemporanei - è quasi sempre sbagliata. Insomma, benché a prima vista la crisi paia essere una sconfitta per Smith, Hayek e Friedman, e al contrario una vittoria per Marx, Keynes e Polanyi, potremmo anche scoprire che ciò è sbagliato.
  CONTINUA ...»

3 Dicembre 2009
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